La 194, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 22 maggio del 1978, è la norma del nostro ordinamento che raccoglie i capisaldi legislativi sulla questione dell’interruzione di gravidanza, definendo modalità, tempi e ragioni sia per quella volontaria sia per l’aborto cosiddetto terapeutico.
Nonostante il diritto all’aborto sia stato confermato anche 3 anni dopo l’approvazione della legge, con un referendum che ha rigettato un’ipotesi di abrogazione (il no vinse con il 68% dei voti), rimane ancora oggi uno dei terreni di scontro più accesi nelle istituzioni e nella società civile. Da una parte si schierano i movimenti prolife, di stampo religioso solitamente, che si oppongono nettamente all’aborto considerandolo un omicidio e quindi un peccato tra i più gravi, dato che la vita sarebbe un dono di Dio, di cui nessuno può disporre. Da segnalare tuttavia la posizione dei valdesi, protestanti, che hanno dimostrato una straordinaria apertura nei confronti di questo tema, con un manifesto diffuso nel 1996 in cui si dice che, nonostante la loro disapprovazione in via di principio, non sono favorevoli all’abolizione della legge, dato che in sostanza solo la “decisione della donna rappresenta l’ultima istanza in materia”.
Dall’altra ci sono i movimenti femministi, il mondo laico e parte della società civile, che invece concentra l’attenzione sull’aspetto del diritto e della libera scelta della donna.
Cosa dice la legge
La legge 194 rappresenta un compromesso tra due istanze: tutelare la vita del nascituro e assicurare il diritto della donna all’autodeterminazione pur se con delle limitazioni. L’incipit è chiaro: “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”, motivo per cui “l’interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite”. Lo sbilanciamento verso la difesa del feto viene compensato dall’articolo 4, secondo cui l’IVG entro i primi 90 giorni dal concepimento è consentita alla donna che “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
Per quanto riguarda invece l’interruzione oltre il limite dei 90 giorni, essa è permessa solo quando “la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” oppure quando “siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. L’aborto terapeutico quindi, in linea di principio, non è uno strumento eugenetico (vale a dire che garantisce la sopravvivenza dei feti se la loro vita potrà essere dignitosa), ma pensato solo per evitare gravi rischi alla futura madre in caso di prosecuzione della gravidanza.
La legge 194 definisce anche chiaramente luoghi e modalità di intervento. Le sedi preposte per seguire le donne in gravidanza sono i consultori familiari, strutture pubbliche istituite nel 1975 che hanno funzione sia informativa sia più propriamente medica. A loro dovrebbero quindi innanzitutto rivolgersi le donne per conoscere i propri diritti e poterli esercitare, ma anche per avere aiuto nel “superare le cause che potrebbero indurre all'interruzione della gravidanza”. Qui, infatti, la gestante dovrebbe essere sottoposta agli accertamenti medici necessari e, soprattutto nel caso la richiesta di interruzione sia dettata da motivi economici, sociali o familiari, dovrebbe ricevere assistenza per la loro risoluzione e sostegno sia durante la gravidanza sia dopo il parto. Se la volontà della donna rimane quella di abortire, la legge prescrive un periodo di riflessione ulteriore di 7 giorni, oltre i quali le sarà rilasciato il certificato medico per procedere all’operazione, salvo casi di urgenza. Simile procedura può essere attuata anche dal singolo medico “di fiducia” cui la donna si rivolge e da altre strutture socio-sanitarie autorizzate (che hanno quindi compiti simili a quelli del consultorio). Anche il futuro padre, se la donna lo consente, deve essere coinvolto nel processo di richiesta dell’IVG, secondo la 194.
Ogni richiesta, inoltre, deve essere fatta dalla donna stessa che gode del diritto alla segretezza: chi ne svela l’identità o fornisce indicazioni che ne permettano l’identificazione subisce una condanna penale.
Per quanto riguarda le minorenni, la legge attribuisce loro gli stessi diritti delle donne oltre i 18 anni, con la differenza che è necessario l’assenso dei genitori (o, in generale, di chi esercita la patria potestà o la tutela sulla giovane) all'intervento. Se sussistono però gravi motivi per cui sia sconsigliato richiedere l’assenso, o i pareri dei tutori sono difformi o questi negano la possibilità dell’intervento, il consultorio (o il medico o altra struttura socio-sanitaria) ricorre al giudice tutelare che, sentita la diretta interessata, entro 5 giorni può dare l’autorizzazione (non revocabile) all’interruzione. Se la minorenne risulta in pericolo di vita si interviene a prescindere da queste autorizzazioni.
Se, invece, la donna, di qualsiasi età, risulta inferma di mente, a fare la richiesta può essere, oltre lei stessa, anche il tutore o il marito non tutore (e non separato), ma la donna deve confermare.
La questione dell’obiezione di coscienza
L’articolo 9 della legge 194 è probabilmente il punto più dibattuto di tutta la norma. Esso prevede infatti che tutto il personale sanitario, medico e non, possa presentare una dichiarazione di obiezione di coscienza, essendo così esonerato dalle procedure e dalle attività “specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza”. Come noto, in Italia le percentuali di obiezione sono altissime ed esistono regioni o province in cui superano anche il 90%, con conseguenti criticità per quanto riguarda la pratica dell’interruzione. Come ribadito a ottobre del 2014 anche da una sentenza del Tar del Lazio (contro cui sono stati presentati dei ricorsi ancora pendenti), gli obiettori di coscienza non sono tuttavia esonerati in alcun modo “dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento”, né dal fornire contraccettivi di emergenza o altri dispositivi anticoncezionali. La legge è chiarissima anche su un altro punto: “l’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.
È da segnalare che la scelta fatta da molti medici di non prendere parte alle procedure inerenti l’aborto non ha sempre motivazioni etiche: lo scarso numero di medici che lo pratica porta come conseguenza, in alcuni casi, un sovraccarico di lavoro per questi ultimi, sovraccarico che impedisce di esercitare la professione in modo pieno, limitando le possibilità di carriera e risultando sicuramente frustrante.
A marzo del 2014, il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha condannato l’Italia per l’altissima percentuale di obiettori di coscienza, che metterebbe a repentaglio la legge 194, rendendola di fatto, anche se non in via di principio, inapplicabile. In risposta a questo parere, nato dal ricorso presentato dall’International Planned Parenthood Federation European Network, il Ministero della Salute ha spiegato come, dato che gli aborti si sono dimezzati negli ultimi 30 anni, i numeri attuali di medici non obiettori sarebbe sufficienti a coprire tale carico di lavoro. Se infatti nel 1983 si effettuavano 3,3 aborti a settimana, adesso si è passati a 1,7. La nota del ministero è stata aspramente contestata tra gli altri dalla Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi), che puntualizza come la diminuzione degli aborti non sia altro che un effetto dell’aumento degli obiettori. Di fronte alla difficoltà, o all’impossibilità, di poter effettuare l’IVG, infatti, le donne si rivolgono a strutture private non autorizzate, si spostano in altre regioni rispetto a quelle di residenza, vanno all’estero o, peggio ancora, ricorrono a metodi fai da te, contribuendo così ai dati che testimoniano il dimezzamento di tale pratica clinica.
Questa situazione riporta per certi versi l’Italia indietro nel tempo, quando l’aborto era illegale e le donne che vi ricorrevano commettevano un reato, insieme a chi lo praticava. Un tempo in cui chi se lo poteva permettere si rivolgeva alle cliniche private (che offrivano buone garanzie per la salute della donna, ma che chiedevano un compenso elevato), mentre le donne meno abbienti facevano ricorso alle mammane o a rimedi e strumenti casalinghi, con gravi rischi (complicazioni, perforazioni, futura infertilità, setticemie, persino la morte). L’aborto clandestino, secondo ricerche recenti, è una piaga che sta facendo nuovamente capolino nel nostro Paese: il ministero della Salute stima 20 mila casi l’anno, ma chiaramente non è una quantificazione certa e potrebbero essere molti di più, soprattutto se si considera quante donne si rivolgono alle strutture ospedaliere per aborti “spontanei” che altro non sono che aborti clandestini finiti male. Le legge è molto severa con chi ricorre a questa pratica, comminando pene di reclusione sia per chi lo effettua sia, in alcuni casi, per la donna stessa.
Il dibattito mai spento
Dalla sua entrata in vigore sono stati presentati 35 ricorsi contro la legge 194, in cui si sollevava il problema della sua costituzionalità. Tutti e 35 sono stati respinti, ma questo dato, da solo, spiega bene come si tratti di una delle norme più contestate del nostro ordinamento. In realtà il dibattito è acceso in tutto il mondo occidentale, dove l’aborto è consentito quasi universalmente. A scontrarsi ci sono i prolife, movimenti tendenzialmente di ispirazione religiosa, insieme alla quasi totalità delle chiese, e i prochoice, che raggruppano persone tra loro anche diverse, non necessariamente atee o agnostiche, che sostengono la necessità di garantire un diritto. Non è quindi detto che tutti i prochoice siano favorevoli all’aborto: quello che li accomuna è la rivendicazione di una legge che assicuri, entro certi limiti da stabilire, la possibilità della donna di scegliere.
Le motivazioni addotte dai prolife si possono sintetizzare così: la vita umana ha inizio con il concepimento, per cui il feto ha fin da subito una sua personalità distinta da quella dei genitori, personalità che va tutelata. L’aborto risulta quindi un omicidio vero e proprio. Le tesi dei prochioce sono variegate, ma si basano su due presupposti: il diritto della donna a decidere, magari ad alcune condizioni ed entro confini stabiliti (come le prime settimane dal concepimento), e il fatto che il feto fino a una certa età gestazionale non solo non ha vita propria, ma non ha nemmeno alcuna forma di autocoscienza.
Lo stesso quadro concettuale che porta alle motivazioni citate è presente quando si parla di contraccezione, pianificazione e controllo delle nascite. Le posizioni dei prolife si spingono, in alcuni casi, fino a sostenere che alcuni metodi contraccettivi (d’urgenza come la pillola del giorno dopo, o ordinari come la spirale) sono da rigettare, in quanto paragonabili all’aborto, dato che non impediscono il concepimento ma la sua prosecuzione. I prochoice, d’altro canto, di solito caldeggiano la diffusione di informazioni e strumenti sulla contraccezione, vista come unica vera soluzione al ricorso all’aborto.
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