Aborto volontario

L’aborto volontario o, come viene più propriamente definito, l’interruzione volontaria di gravidanza o IVG consiste nella scelta di porre fine alla gestazione in corso. La legge italiana lo permette entro 90 giorni dal concepimento. L’aborto volontario è da anni al centro di intense polemiche, che vedono contrapporsi da una parte la società laica, favorevole alla libera scelta da parte delle donne se diventare o meno madri, e dall’altra i movimenti pro-vita, di solito di stampo religioso, che vedono invece nella difesa a oltranza della vita del nascituro la ragione per stigmatizzare ogni intervento che ne minacci la prosecuzione.
Ragioni e libera scelta
La decisione di interrompere una gravidanza non è mai presa a cuor leggero, ma comporta in molti casi una difficile lotta interiore, in cui si oppongono motivi razionali, aspetti emotivi, retaggi culturali, credenze etiche e religiose. Le principali cause di interruzione volontaria sono l’età (per le madri troppo giovani), il fallimento del metodo contraccettivo usato, l’assunzione di farmaci che possono compromettere la salute del feto, le difficili condizioni economiche, fino ad arrivare ai casi drammatici come le gravidanze frutto di uno stupro.
Secondo un’indagine del 2013 sull’applicazione della legge 194 (quella che regola l‘interruzione di gravidanza nel nostro Paese) si è assistito a un progressivo declino degli aborti effettuati, anche da parte delle minorenni, da quando esso è diventato legale: in complesso si sono più che dimezzati dal 1982 (anno con il più alto ricorso mai registrato a questa pratica). Il tasso di abortività, che riguarda i casi di IVG su 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni (il periodo medio di fertilità), nel 2012 è stato del 7,8 per mille, con un terzo dei casi relativi alle donne straniere (anche per loro si sta registrando però un tendenza verso la diminuzione). Per le minorenni l’indice è del 4,5 per mille (dato del 2011).
Le motivazioni ideali che stanno dietro alla legge e soprattutto al suo sostegno, da parte dei movimenti femministi ma non solo, riguardano il tema della libera scelta, in modo che la possibilità di decidere autonomamente circa una questione così importante e che cambia radicalmente la vita (avere un figlio) sia garantita a tutte le donne. Sarà poi ciascuna a valutare se, nel proprio caso, si vuole o meno fare ricorso all’interruzione. È chiaro che l’aborto non è inteso dal legislatore (ma nemmeno dalla stragrande maggioranza delle donne stesse) come una sorta di contraccettivo a posteriori, mentre per chi preferisse non farvi ricorso, ma non desiderasse accudire un figlio, la legge italiana permette di mettere al mondo il bambino senza riconoscerlo: una possibilità che ogni donna deve conoscere per poter decidere in modo informato e consapevole.
Come si effettua
A seconda del periodo di gestazione in cui viene praticato, si può ricorrere a diverse tecniche, cliniche o farmacologiche. Se la gravidanza è agli inizi (entro il 49° giorno dal concepimento) si può procedere in due modi: l’assunzione controllata di farmaci o il ricorso alle tecniche di svuotamento e isterosuzione.
Nel caso di assunzione dei farmaci, l'interruzione di gravidanza avviene in due fasi, prima con la RU486 (a base di mifepristone), che blocca lo sviluppo fetale e determina il suo distacco dell’utero e, dopo 2 giorni, con un secondo medicinale a base di prostaglandine che inducono lo svuotamento dell’utero stesso in modo autonomo (senza quindi intervento chirurgico). Legalizzato in Italia dalla fine del 2009, questo metodo prevede comunque il ricovero ospedaliero (non previsto in altri Paesi). È consigliabile perché riduce i rischi e gli effetti collaterali legati a un intervento invasivo, ma non si può effettuare in caso di allergie ai prodotti usati. Può, ma molto raramente, aumentare il rischio di emorragie (per lo sfaldamento dell’endometrio), mentre tra le possibili conseguenze ci sono tachicardia, eritemi o problemi intestinali (di solito transitori e comunque non gravi).
L’aborto cosiddetto strumentale si pratica invece in modo chirurgico. Si effettua con l’aspirazione del materiale fetale e dell’endometrio tramite una cannula, per svuotare l’utero. Un secondo metodo è quello della dilatazione della cervice (il collo dell’utero) in modo meccanico e non più chimico per l’aspirazione, con conseguente raschiamento della cavità uterina, per asportare feto, placenta e liquido amniotico. Di solito si utilizza quando la gravidanza è a uno stadio più avanzato, per cui è necessario agire in modo più invasivo. L’interruzione tramite intervento chirurgico impone il ricovero in ospedale di 1 o 2 giorni e si effettua in anestesia, locale o generale a seconda del tipo di metodologia adottata e delle condizioni della donna. I maggiori rischi sono dovuti proprio all’anestesia e alla possibilità di contrarre infezioni. Dolore e sanguinamento sono invece fenomeni normali.
Effettuare un aborto non ha conseguenze, solitamente, sulla capacità riproduttiva della donna, che quindi potrà rimanere incinta nuovamente. Non esistono, in linea generale, nemmeno indicazioni precise sul tempo di attesa per una nuova gravidanza. La situazione può essere invece più complicata in caso di aborti ripetuti (per potenziali effetti dei raschiamenti, per esempio), per cui è bene valutare con attenzione il ricorso all’IVG se la si è già praticata più volte.
Cosa dice la legge
A regolare l’aborto in Italia è la legge 194. Promulgata nel 1978, fu oggetto di referendum abrogativo nel 1981, ma venne confermata. Ancora oggi, però, è oggetto di feroci critiche e di tentativi di limitarla o rivisitarla in senso restrittivo.
Il principio generale delle norme è quello di garantire “il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”, riconoscendo “il valore sociale della maternità” e tutelando “la vita umana dal suo inizio”. Il diritto della donna è concesso solo se “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”, ed è contemperato da una serie di articoli che impongono alle strutture che seguono le donne in questo frangente, i consultori, di evitare che “l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite” e di mettere in atto tutte le iniziative che possano contribuire a “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza”. Il diritto della donna, quindi, non può essere a scapito del diritto alla vita del concepito, salvo circostanze tali per cui quest’ultimo sia lesivo della salute, fisica o psicologica, della donna stessa.
La legge descrive anche l’iter che la donna deve affrontare per fare richiesta di interruzione: rivolgersi a un consultorio o a una struttura socio-sanitaria autorizzata o al proprio medico, effettuare alcuni accertamenti medici e sostenere un colloquio volto a capire le ragioni di questa scelta, in cui, soprattutto se le motivazioni addotte sono di carattere economico, sociale o familiare, i medici dovrebbero esaminare ”le possibili soluzioni dei problemi proposti, aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza, metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. Se l’intervento non riveste carattere di urgenza, alla donna viene chiesto di tornare dopo 7 giorni, nei quali confermare o smentire la propria scelta. Se passato questo tempo la donna è sempre intenzionata a praticare l’IVG, le viene fornito l’apposito certificato, con cui presentarsi in un ospedale o in altro centro autorizzato per prenotare l’intervento.
La stessa legge indica in modo chiaro le pene (pecuniarie e detentive) per chi provoca aborto alla donna, che in alcuni casi si applicano alla donna stessa, ovviamente come deterrente nei confronti della pratica dell’aborto clandestino.
Difficoltà e ostacoli
Due sono le principali criticità relative all’interruzione della gravidanza: da un parte la presenza di percentuali altissime di obiettori di coscienza tra i personale medico che dovrebbe occuparsi della prescrizione e dell’intervento, dall’altra la carenza di strutture in grado di fornire consulenza e orientare le donne che si trovano di fronte a questa difficile scelta e di seguirle nell’iter burocratico-clinico. Le strutture primarie individuate dalla legge sono i consultori familiari. Istituiti nel 1975, con la legge 194 sono stati definiti come il luogo privilegiato per assistere le donne nel loro percorso verso la maternità e quindi supportarle anche quando decidono di non intraprenderlo.
Per quanto riguarda l’obiezione (secondo i dati relativi al 2011) essa è di circa il 70% dei ginecologi (con punte fino a quasi l’80% nelle regioni del Sud), del 48% per gli anestesisti e del 43% del personale non medico: una situazione che impone a molte donne di spostarsi dal proprio luogo di residenza per fare la richiesta (con ovvi problemi legati al tempo che si dilata e rischia di sforare il limite delle 12 settimane) o di ricorrere all’aborto clandestino. La piaga dell’aborto clandestino, cui la legge 194 ha cercato di porre un freno, non è facile da quantificare ma, dopo la sua riduzione drastica dal 1978 in poi, oggi si è rilevato un ritorno a pratiche fai da te (alcune delle quali molto pericolose oltre che completamente inefficaci) o in studi medici non autorizzati o, peggio ancora, da parte di singole persone non qualificate.
Il Ministero della Salute ha calcolato nel 2008 che gli aborti clandestini erano 20 mila l’anno, ma è probabile che siano almeno il doppio, con rischi che vanno dall’infertilità procurata alla morte per emorragie, setticemie, manovre sbagliate o farmaci assunti in modo non controllato. Ovviamente sono le donne più povere, le adolescenti e spesso le straniere a fare ricorso ai consigli fai da te che si trovano on line e ad acquistare i medicinali al mercato nero, oppure a utilizzare strumenti casalinghi (uncini, ferri da maglia, ecc.), quindi la più soggette a incorrere in conseguenze anche molto serie. Chi se lo può permettere economicamente (l’intervento ha un costo di qualche migliaio di euro) spesso ricorre a cliniche private o va all’estero (in cui i limiti temporali per l’IVG sono più lunghi, almeno in alcuni Paesi), dove l’operazione avviene in condizioni di sicurezza.
In merito ai consultori familiari, essi sono presenti a macchia di leopardo sul territorio italiano, diffusi meno del necessario, con scarsi finanziamenti e poco personale, per cui spesso non garantiscono continuità nel seguire le donne. In essi, naturalmente, lavorano anche medici obiettori, la cui presenza rischia di rallentare, se non ostacolare del tutto, il percorso della donna verso l’IVG. In aiuto è arrivata la storica sentenza del Tar del Lazio (ottobre 2014) che ha imposto comunque a questi medici di rilasciare i certificati per effettuare l’aborto.
I consultori, inoltre, sono da anni oggetto di battaglie feroci sul fatto di ospitare dei volontari dei movimenti per la vita, i quali dovrebbero fornire supporto e informazioni per chi decidesse di non abortire. Più volte i sostenitori della libera scelta delle donne hanno segnalato il pericolo di tale presenza, che non sarebbe altro che un ostacolo in più per la donna comportando ingerenze e pressioni psicologiche anche pesanti in un momento già molto difficile.
Ragioni e libera scelta
La decisione di interrompere una gravidanza non è mai presa a cuor leggero, ma comporta in molti casi una difficile lotta interiore, in cui si oppongono motivi razionali, aspetti emotivi, retaggi culturali, credenze etiche e religiose. Le principali cause di interruzione volontaria sono l’età (per le madri troppo giovani), il fallimento del metodo contraccettivo usato, l’assunzione di farmaci che possono compromettere la salute del feto, le difficili condizioni economiche, fino ad arrivare ai casi drammatici come le gravidanze frutto di uno stupro.
Secondo un’indagine del 2013 sull’applicazione della legge 194 (quella che regola l‘interruzione di gravidanza nel nostro Paese) si è assistito a un progressivo declino degli aborti effettuati, anche da parte delle minorenni, da quando esso è diventato legale: in complesso si sono più che dimezzati dal 1982 (anno con il più alto ricorso mai registrato a questa pratica). Il tasso di abortività, che riguarda i casi di IVG su 1.000 donne tra i 15 e i 49 anni (il periodo medio di fertilità), nel 2012 è stato del 7,8 per mille, con un terzo dei casi relativi alle donne straniere (anche per loro si sta registrando però un tendenza verso la diminuzione). Per le minorenni l’indice è del 4,5 per mille (dato del 2011).
Le motivazioni ideali che stanno dietro alla legge e soprattutto al suo sostegno, da parte dei movimenti femministi ma non solo, riguardano il tema della libera scelta, in modo che la possibilità di decidere autonomamente circa una questione così importante e che cambia radicalmente la vita (avere un figlio) sia garantita a tutte le donne. Sarà poi ciascuna a valutare se, nel proprio caso, si vuole o meno fare ricorso all’interruzione. È chiaro che l’aborto non è inteso dal legislatore (ma nemmeno dalla stragrande maggioranza delle donne stesse) come una sorta di contraccettivo a posteriori, mentre per chi preferisse non farvi ricorso, ma non desiderasse accudire un figlio, la legge italiana permette di mettere al mondo il bambino senza riconoscerlo: una possibilità che ogni donna deve conoscere per poter decidere in modo informato e consapevole.
Come si effettua
A seconda del periodo di gestazione in cui viene praticato, si può ricorrere a diverse tecniche, cliniche o farmacologiche. Se la gravidanza è agli inizi (entro il 49° giorno dal concepimento) si può procedere in due modi: l’assunzione controllata di farmaci o il ricorso alle tecniche di svuotamento e isterosuzione.
Nel caso di assunzione dei farmaci, l'interruzione di gravidanza avviene in due fasi, prima con la RU486 (a base di mifepristone), che blocca lo sviluppo fetale e determina il suo distacco dell’utero e, dopo 2 giorni, con un secondo medicinale a base di prostaglandine che inducono lo svuotamento dell’utero stesso in modo autonomo (senza quindi intervento chirurgico). Legalizzato in Italia dalla fine del 2009, questo metodo prevede comunque il ricovero ospedaliero (non previsto in altri Paesi). È consigliabile perché riduce i rischi e gli effetti collaterali legati a un intervento invasivo, ma non si può effettuare in caso di allergie ai prodotti usati. Può, ma molto raramente, aumentare il rischio di emorragie (per lo sfaldamento dell’endometrio), mentre tra le possibili conseguenze ci sono tachicardia, eritemi o problemi intestinali (di solito transitori e comunque non gravi).
L’aborto cosiddetto strumentale si pratica invece in modo chirurgico. Si effettua con l’aspirazione del materiale fetale e dell’endometrio tramite una cannula, per svuotare l’utero. Un secondo metodo è quello della dilatazione della cervice (il collo dell’utero) in modo meccanico e non più chimico per l’aspirazione, con conseguente raschiamento della cavità uterina, per asportare feto, placenta e liquido amniotico. Di solito si utilizza quando la gravidanza è a uno stadio più avanzato, per cui è necessario agire in modo più invasivo. L’interruzione tramite intervento chirurgico impone il ricovero in ospedale di 1 o 2 giorni e si effettua in anestesia, locale o generale a seconda del tipo di metodologia adottata e delle condizioni della donna. I maggiori rischi sono dovuti proprio all’anestesia e alla possibilità di contrarre infezioni. Dolore e sanguinamento sono invece fenomeni normali.
Effettuare un aborto non ha conseguenze, solitamente, sulla capacità riproduttiva della donna, che quindi potrà rimanere incinta nuovamente. Non esistono, in linea generale, nemmeno indicazioni precise sul tempo di attesa per una nuova gravidanza. La situazione può essere invece più complicata in caso di aborti ripetuti (per potenziali effetti dei raschiamenti, per esempio), per cui è bene valutare con attenzione il ricorso all’IVG se la si è già praticata più volte.
Cosa dice la legge
A regolare l’aborto in Italia è la legge 194. Promulgata nel 1978, fu oggetto di referendum abrogativo nel 1981, ma venne confermata. Ancora oggi, però, è oggetto di feroci critiche e di tentativi di limitarla o rivisitarla in senso restrittivo.
Il principio generale delle norme è quello di garantire “il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”, riconoscendo “il valore sociale della maternità” e tutelando “la vita umana dal suo inizio”. Il diritto della donna è concesso solo se “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”, ed è contemperato da una serie di articoli che impongono alle strutture che seguono le donne in questo frangente, i consultori, di evitare che “l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite” e di mettere in atto tutte le iniziative che possano contribuire a “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza”. Il diritto della donna, quindi, non può essere a scapito del diritto alla vita del concepito, salvo circostanze tali per cui quest’ultimo sia lesivo della salute, fisica o psicologica, della donna stessa.
La legge descrive anche l’iter che la donna deve affrontare per fare richiesta di interruzione: rivolgersi a un consultorio o a una struttura socio-sanitaria autorizzata o al proprio medico, effettuare alcuni accertamenti medici e sostenere un colloquio volto a capire le ragioni di questa scelta, in cui, soprattutto se le motivazioni addotte sono di carattere economico, sociale o familiare, i medici dovrebbero esaminare ”le possibili soluzioni dei problemi proposti, aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza, metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. Se l’intervento non riveste carattere di urgenza, alla donna viene chiesto di tornare dopo 7 giorni, nei quali confermare o smentire la propria scelta. Se passato questo tempo la donna è sempre intenzionata a praticare l’IVG, le viene fornito l’apposito certificato, con cui presentarsi in un ospedale o in altro centro autorizzato per prenotare l’intervento.
La stessa legge indica in modo chiaro le pene (pecuniarie e detentive) per chi provoca aborto alla donna, che in alcuni casi si applicano alla donna stessa, ovviamente come deterrente nei confronti della pratica dell’aborto clandestino.
Difficoltà e ostacoli
Due sono le principali criticità relative all’interruzione della gravidanza: da un parte la presenza di percentuali altissime di obiettori di coscienza tra i personale medico che dovrebbe occuparsi della prescrizione e dell’intervento, dall’altra la carenza di strutture in grado di fornire consulenza e orientare le donne che si trovano di fronte a questa difficile scelta e di seguirle nell’iter burocratico-clinico. Le strutture primarie individuate dalla legge sono i consultori familiari. Istituiti nel 1975, con la legge 194 sono stati definiti come il luogo privilegiato per assistere le donne nel loro percorso verso la maternità e quindi supportarle anche quando decidono di non intraprenderlo.
Per quanto riguarda l’obiezione (secondo i dati relativi al 2011) essa è di circa il 70% dei ginecologi (con punte fino a quasi l’80% nelle regioni del Sud), del 48% per gli anestesisti e del 43% del personale non medico: una situazione che impone a molte donne di spostarsi dal proprio luogo di residenza per fare la richiesta (con ovvi problemi legati al tempo che si dilata e rischia di sforare il limite delle 12 settimane) o di ricorrere all’aborto clandestino. La piaga dell’aborto clandestino, cui la legge 194 ha cercato di porre un freno, non è facile da quantificare ma, dopo la sua riduzione drastica dal 1978 in poi, oggi si è rilevato un ritorno a pratiche fai da te (alcune delle quali molto pericolose oltre che completamente inefficaci) o in studi medici non autorizzati o, peggio ancora, da parte di singole persone non qualificate.
Il Ministero della Salute ha calcolato nel 2008 che gli aborti clandestini erano 20 mila l’anno, ma è probabile che siano almeno il doppio, con rischi che vanno dall’infertilità procurata alla morte per emorragie, setticemie, manovre sbagliate o farmaci assunti in modo non controllato. Ovviamente sono le donne più povere, le adolescenti e spesso le straniere a fare ricorso ai consigli fai da te che si trovano on line e ad acquistare i medicinali al mercato nero, oppure a utilizzare strumenti casalinghi (uncini, ferri da maglia, ecc.), quindi la più soggette a incorrere in conseguenze anche molto serie. Chi se lo può permettere economicamente (l’intervento ha un costo di qualche migliaio di euro) spesso ricorre a cliniche private o va all’estero (in cui i limiti temporali per l’IVG sono più lunghi, almeno in alcuni Paesi), dove l’operazione avviene in condizioni di sicurezza.
In merito ai consultori familiari, essi sono presenti a macchia di leopardo sul territorio italiano, diffusi meno del necessario, con scarsi finanziamenti e poco personale, per cui spesso non garantiscono continuità nel seguire le donne. In essi, naturalmente, lavorano anche medici obiettori, la cui presenza rischia di rallentare, se non ostacolare del tutto, il percorso della donna verso l’IVG. In aiuto è arrivata la storica sentenza del Tar del Lazio (ottobre 2014) che ha imposto comunque a questi medici di rilasciare i certificati per effettuare l’aborto.
I consultori, inoltre, sono da anni oggetto di battaglie feroci sul fatto di ospitare dei volontari dei movimenti per la vita, i quali dovrebbero fornire supporto e informazioni per chi decidesse di non abortire. Più volte i sostenitori della libera scelta delle donne hanno segnalato il pericolo di tale presenza, che non sarebbe altro che un ostacolo in più per la donna comportando ingerenze e pressioni psicologiche anche pesanti in un momento già molto difficile.
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