Aborto terapeutico

Come funziona l'aborto? Come affrontare un aborto terapeutico?
Intanto, è necessario chiarire che per l'aborto si definisce terapeutico quando si tratta di un procedura per l’interruzione della gravidanza dettata da motivazioni mediche e di salute. La legge italiana lo consente entro 180 giorni (sei mesi, oggi ridotto a 22 settimane, circa 25 giorni prima), ma solo quando esiste un concreto rischio per la vita o la salute della futura mamma. Soltanto in quest’ultimo caso si definisce propriamente interruzione terapeutica (ITG).
Cosa dice la legge
La legge che regola l’interruzione volontaria di gravidanza è la 194, promulgata nel 1978 e confermata tre anni dopo da un referendum popolare. Recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno indicato delle precise limitazioni nell’uso di questo strumento. In particolare nel caso di aborto terapeutico entro i 180 giorni si sostiene che esso è consentito solo se è la salute della gestante a essere a rischio di gravi conseguenze, mentre non ha rilevanza il fatto che il feto sia affetto da malformazioni o disordini genetici tali da, una volta nato, non essere in grado di vivere una vita degna. Quello che si è sottolineato è come manchi nel nostro ordinamento il cosiddetto aborto eugenetico, perché a essere tutelato è solo il diritto alla vita e quindi alla nascita, e non quello a condurre un'esistenza sana e piena. L’interruzione non è quindi considerata un diritto della donna, ma un mezzo attraverso cui lei può tutelare la propria vita o la propria salute, attraverso la negazione di un altro diritto ugualmente valido, quello del feto di vivere. Una pronuncia del 2004 ha imposto anche un ulteriore paletto: l’aborto è consentito solo se il bambino non potrà vivere autonomamente al di fuori dell’utero. Il limite per questo tipo di aborto è stato allora abbassato a 22 settimane, oltre le quali egli ha delle possibilità (più teoriche che pratiche) di sopravvivenza.
Per fortuna i miglioramenti in ambito diagnostico e i progressi nelle cure permettono di conoscere sempre prima e se necessario di intervenire in modo più efficace nel caso di malformazioni o altre patologie del feto, per cui meno donne hanno cercato lo strumento dell’aborto clinico per evitare di mettere al mondo bambini condannati in partenza a una vita non degna di essere vissuta.
Perché e come si effettua
Solitamente l’aborto terapeutico viene prescritto a livello medico in caso di gravi patologie materne, come malattie cardiovascolari oppure renali, tumori la cui cura sia dannosa per il feto o che abbiano dato metastasi che hanno colpito il bambino o la placenta. Al di là delle indicazioni della legge, spesso a determinare la decisione di procedere a questo tipo di aborto sono delle gravi malformazioni del feto. Capita che siano scoperte oltre il tempo limite stabilito dalle norme italiane: a molte mamme non resta altra scelta che andare all’estero, dove esistono norme meno stringenti e tempi meno stretti.
L’aborto terapeutico avviene diversamente a seconda del numero di settimane di gestazione. Si procede allo svuotamento dell’utero tramite raschiamento fino alla 15-16° settimana, mentre successivamente si effettua una vera e propria induzione del parto e, se necessario, il raschiamento per eliminare tutto il materiale legato alla gravidanza. Di solito è prevista un’anestesia locale o una terapia antidolorifica, ma la permanenza in ospedale, se tutto è andato per il verso giusto, non supera i due giorni. La donna può avere delle perdite di sangue nei 7-10 giorni successivi, da tenere sottocontrollo se superno questa durata o se compare la febbre, mentre il regolare ciclo mestruale tornerà dopo 30-40 giorni. Per tentare un nuovo concepimento è bene aspettare almeno 5-6 mesi e soprattutto fare tutti i controlli necessari per escludere eventuali patologie della madre e valutare il rischio che compaiano nuovamente malformazioni nel feto.
In ogni caso, si tratta sempre di una decisione difficile: l’aborto terapeutico si effettua di solito non in gravidanze indesiderate (per cui esiste lo strumento dell’IVG, l’interruzione volontaria della gravidanza), ma quando si scopre che un figlio voluto non sarebbe in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, o risulta gravemente malato o ancora che la sua esistenza è incompatibile con la vita e la salute della madre. Oltre al supporto medico e ginecologico, in seguito ad un aborto terapeutico può essere d’aiuto anche rivolgersi a una terapia psicologica mirata per trovare sollievo dalla sofferenza che tale decisione spesso porta con sé.
Intanto, è necessario chiarire che per l'aborto si definisce terapeutico quando si tratta di un procedura per l’interruzione della gravidanza dettata da motivazioni mediche e di salute. La legge italiana lo consente entro 180 giorni (sei mesi, oggi ridotto a 22 settimane, circa 25 giorni prima), ma solo quando esiste un concreto rischio per la vita o la salute della futura mamma. Soltanto in quest’ultimo caso si definisce propriamente interruzione terapeutica (ITG).
Cosa dice la legge
La legge che regola l’interruzione volontaria di gravidanza è la 194, promulgata nel 1978 e confermata tre anni dopo da un referendum popolare. Recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno indicato delle precise limitazioni nell’uso di questo strumento. In particolare nel caso di aborto terapeutico entro i 180 giorni si sostiene che esso è consentito solo se è la salute della gestante a essere a rischio di gravi conseguenze, mentre non ha rilevanza il fatto che il feto sia affetto da malformazioni o disordini genetici tali da, una volta nato, non essere in grado di vivere una vita degna. Quello che si è sottolineato è come manchi nel nostro ordinamento il cosiddetto aborto eugenetico, perché a essere tutelato è solo il diritto alla vita e quindi alla nascita, e non quello a condurre un'esistenza sana e piena. L’interruzione non è quindi considerata un diritto della donna, ma un mezzo attraverso cui lei può tutelare la propria vita o la propria salute, attraverso la negazione di un altro diritto ugualmente valido, quello del feto di vivere. Una pronuncia del 2004 ha imposto anche un ulteriore paletto: l’aborto è consentito solo se il bambino non potrà vivere autonomamente al di fuori dell’utero. Il limite per questo tipo di aborto è stato allora abbassato a 22 settimane, oltre le quali egli ha delle possibilità (più teoriche che pratiche) di sopravvivenza.
Per fortuna i miglioramenti in ambito diagnostico e i progressi nelle cure permettono di conoscere sempre prima e se necessario di intervenire in modo più efficace nel caso di malformazioni o altre patologie del feto, per cui meno donne hanno cercato lo strumento dell’aborto clinico per evitare di mettere al mondo bambini condannati in partenza a una vita non degna di essere vissuta.
Perché e come si effettua
Solitamente l’aborto terapeutico viene prescritto a livello medico in caso di gravi patologie materne, come malattie cardiovascolari oppure renali, tumori la cui cura sia dannosa per il feto o che abbiano dato metastasi che hanno colpito il bambino o la placenta. Al di là delle indicazioni della legge, spesso a determinare la decisione di procedere a questo tipo di aborto sono delle gravi malformazioni del feto. Capita che siano scoperte oltre il tempo limite stabilito dalle norme italiane: a molte mamme non resta altra scelta che andare all’estero, dove esistono norme meno stringenti e tempi meno stretti.
L’aborto terapeutico avviene diversamente a seconda del numero di settimane di gestazione. Si procede allo svuotamento dell’utero tramite raschiamento fino alla 15-16° settimana, mentre successivamente si effettua una vera e propria induzione del parto e, se necessario, il raschiamento per eliminare tutto il materiale legato alla gravidanza. Di solito è prevista un’anestesia locale o una terapia antidolorifica, ma la permanenza in ospedale, se tutto è andato per il verso giusto, non supera i due giorni. La donna può avere delle perdite di sangue nei 7-10 giorni successivi, da tenere sottocontrollo se superno questa durata o se compare la febbre, mentre il regolare ciclo mestruale tornerà dopo 30-40 giorni. Per tentare un nuovo concepimento è bene aspettare almeno 5-6 mesi e soprattutto fare tutti i controlli necessari per escludere eventuali patologie della madre e valutare il rischio che compaiano nuovamente malformazioni nel feto.
In ogni caso, si tratta sempre di una decisione difficile: l’aborto terapeutico si effettua di solito non in gravidanze indesiderate (per cui esiste lo strumento dell’IVG, l’interruzione volontaria della gravidanza), ma quando si scopre che un figlio voluto non sarebbe in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, o risulta gravemente malato o ancora che la sua esistenza è incompatibile con la vita e la salute della madre. Oltre al supporto medico e ginecologico, in seguito ad un aborto terapeutico può essere d’aiuto anche rivolgersi a una terapia psicologica mirata per trovare sollievo dalla sofferenza che tale decisione spesso porta con sé.
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